Il gesto estremo
Ha suscitato tanta incredulità e sgomento la notizia della morte di don Matteo Balzano, il giovane vicario parrocchiale di Cannobio, che, nel segreto della sua abitazione, sabato 5 luglio ha deciso di togliersi la vita.
Non conosciamo le cause che hanno determinato questa sua decisione. Sicuramente coloro che hanno seguito il discernimento della sua vocazione, la sua formazione e la sua consacrazione al ministero presbiterale hanno dei dati in più per valutare l’accaduto e spero che, ammesso che ne abbiano la consapevolezza, riescano a mettere in moto dentro se stessi un profondo esame di coscienza e una illuminata revisione del loro operato.
La nota diramata dalla diocesi di Novara, per dare l’annuncio della morte di don Matteo, descrive così il suo iter pastorale: “Dopo un periodo vissuto presso il Santuario di Re, aveva ripreso con entusiasmo la propria missione tra i giovani dell’oratorio della parrocchia di Cannobio”.
Mi hanno colpito molto queste parole che nascondono tra le righe un non detto, sicuramente un passato segnato da disagio e criticità, che avevano reso necessaria una pausa di riflessione presso un Santuario, per poi “riprendere con entusiasmo la sua missione”.
Anche alcune sue espressioni riferite da una parrocchiana rivelano un altro tassello importante dei sentimenti che animavano nell’intimo il cuore di don Matteo: “Nessuno sa l’inferno che uno ha dentro per arrivare a un gesto estremo”. Le sue stesse parole, alla vigilia della sua morte, aprono uno squarcio drammatico sull’evento, mettendo in luce una ferita profonda che lacerava il giovane prete interiormente.
Il suicidio è il gesto più difficile che un essere umano possa compiere, perché istintivamente, per natura, ogni persona tende alla salvaguardia e alla tutela della sua esistenza.
Per maturare dentro di sé una decisione così drammatica e definitiva, bisogna pertanto essere mossi da una disperazione e da una angoscia infinite.
Quando, per di più, a prendere una simile decisione è un prete, addirittura giovane e attorniato da giovani che trasmettono grande vitalità ed entusiasmo, ci si chiede come sia possibile che sentimenti così distruttivi e senza speranza abbiano preso posto nel suo cuore.
Un gesto così estremo, infatti, non si decide dall’oggi al domani. Decisioni come questa si preparano nel tempo, goccia dopo goccia, pensiero dopo pensiero, pianto dopo pianto, lungo le notti insonni e negli spazi di solitudine che intessono le proprie giornate, e si insinuano nella mente scavando tunnel bui e senza sbocco, fino a quando si materializzano in scelte risolute e irreversibili.
Il suicidio è sempre la punta di un grosso iceberg che nasconde situazioni complesse, invivibili e pesanti come macigni, solitudini abissali, interrogativi senza risposte.
Anche noi, davanti alla sua morte, dovremmo porci molti necessari interrogativi che non possono rimanere però senza risposta.
Perché è assolutamente terribile pensare che in un ambiente così “protetto” e “privilegiato” come la chiesa, dove l’amore fraterno, la prossimità , la solidarietà, l’accoglienza e l’ascolto reciproco dovrebbero albergare, diventando stile di vita e ossigeno essenziale alla vita, possano accadere fatti così inspiegabili e dolorosi.
Don Matteo infatti non è il primo prete che si toglie la vita, né la prima persona che all’interno dei presbitèri e delle comunità religiose vive una situazione di estremo disagio, di malessere insopportabile, di fragilità che grida aiuto, sostegno e vicinanza.
Spesso, nel passato, questi episodi, considerati uno scandalo più che una tragedia, sono stati coperti dal silenzio, nascosti e camuffati dietro false verità. Oggi per fortuna se ne parla chiaramente e si chiamano le cose col proprio nome, senza reticenze: suicidio!
Sono numerosi in realtà nella chiesa i casi di sconforto, di smarrimento, di disorientamento, di vuoto e di non-senso. Moltissimi, senza voce, si consumano nella solitudine più tetra, davanti agli occhi di tanti che hanno responsabilità dirette e che non muovono un dito, ostinandosi a negare l’evidenza, istillando nel malcapitato sospetti di anormalità e di follia, prospettandogli nella preghiera l’unica via risolutiva ai suoi drammi esistenziali, interpretando il suo disagio come una tentazione del diavolo, obbligandolo al silenzio per non creare scandali, per non oscurare l’immagine della sua comunità che tiene più all’apparenza che alla realtà delle cose, come i sepolcri imbiancati di cui parla Gesù nel Vangelo.
Molti altri, da spettatori insensibili e complici, preferiscono ignorare, criticare, puntare il dito, emarginare.
E così a chi vive un dramma senza intravedere alcuna soluzione e nessuna mano tesa in suo aiuto, non resta altro che nascondere la sua fragilità e vivere la sua esistenza come sul palco di un teatro, fingendo di essere felice e pienamente realizzato. Paradossalmente, egli appare così agli occhi dei comuni esseri umani come una persona sempre sorridente e disponibile, come un punto di riferimento importante, come un modello da imitare.
Nessuno sospetterebbe mai l’inferno che si agita ogni giorno nel suo cuore. Ma una finzione non può durare a lungo. Prima o poi si rompono gli argini e si cede al peso insopportabile di cui ci si è caricati.
Il mondo dei preti e dei consacrati non è affatto, come molti vorrebbero far credere, il luogo della comunione, del dialogo, della solidarietà, dell’aiuto reciproco, della comprensione vicendevole. Tutt’altro! Spesso può trasformarsi in uno spazio asfittico, in un ambiente ostile, in una somma di isolamenti e solitudini, in un covo di vipere, dove regnano le invidie, le gelosie, le critiche, i sospetti, i tradimenti, le rivalità, le ipocrisie, e, a seconda delle circostanze, perfino le interessate adulazioni.
Ma non basta! Colpisce quanto preminente sia l’interesse riservato al fare, all’apparire, all’organizzare eventi autoreferenziali, per illuminare la propria immagine, per accrescere il proprio successo, per diffondere la fama della propria grandezza, perdendo di vista ciò che è davvero essenziale: accogliere i propri confratelli, saperli guardare negli occhi con un sorriso, chiedere a ciascuno di loro “come stai”, seguire i loro percorsi, gioire dei loro risultati, valorizzare le loro qualità, lodarli per le loro doti, invece di sentirsi adombrati e sminuiti dalla loro presenza e dai loro successi.
In questo clima così egoistico e così poco evangelico, i più fragili, non trovando aiuto e supporto, si isolano sempre più, rinunciano a comunicare, si chiudono nella loro solitudine, ma non resistono a lungo e alla fine soccombono.
C’è anche, per fortuna, chi riesce a trovare dentro di sé motivazioni più profonde per andare avanti; c’è chi riesce a imboccare nuove strade grazie alla forza e alla determinazione del proprio carattere; ma c’è purtroppo anche chi non ce la fa e nel silenzio assordante che lo circonda rinuncia a vivere.
A questo punto ci auguriamo tutti che la morte di don Matteo produca un frutto di vita nuova in questa nostra povera chiesa: che possa almeno servire ad aprire spazi di riflessione, di verifica e di conversione profonda nella Chiesa, a partire dai suoi presbiteri, dalle comunità di vita consacrata e dai suoi vertici, per intraprendere finalmente nuovi cammini di speranza, sulla via della verità e dell’autenticità.
Da Salvo Patane '
RispondiEliminaQuando ho appreso la terribile notizia sono rimasto di ghiaccio.
Nello stesso tempo mi sono sentito complice, colpevole in rappresentanza di quanti non si sono accorti di nulla, di quello che stava maturando nella sua mente.
Sembrava un giovane forte, di mille speranze. Vuol dire che non ha lasciato trapelare nulla delle sue intenzioni.
Chissà cosa ha potuto determinare il gesto estremo di togliersi la vita.
Nulla lo puo' giustificare. Qualunque incidente di percorso si sarebbe potuto ricomporre e superare.
Proprio don Matteo, uomo forte, di successo, che trasudava speranza ha compiuto un gesto disperato, senza possibilità di replica.
Il Signore che legge nei cuori lo avrà già perdonato.
Io da parte mia soffro con lui per il sui gesto estremo e prego per la sua anima.
Salvo Patane '
Bellissimo questo scritto. Sono d’accordo ed aggiungo che la situazione che hai descritto è comune a molti altri ambienti. Ciao. A.
RispondiEliminaCara Aurora, bellissime riflessioni che condivido pienamente. Spesso mi trovo a riflettere sulla vita donata dei sacerdoti e a pregare per loro. Penso con tristezza alla loro solitudine, all' invadenza dei fedeli che chiedono e pretendono come se forze e risorse del povero prete fossero infinite. Mi viene da fare il paragone con gli analisti che per rimanere in salute e saldi di mente si sottopongono essi stessi a sedute di analisi e terapia di sostegno. Esiste qualcosa del genere per i sacerdoti? Ci sarà ovviamente il padre spirituale, ma sarà sempre all'altezza del compito? Sono nata in una famiglia cattolica e molto praticante, sono sempre stata credente e praticante, ma da quando sono adulta mai nei gruppi parrocchiali dove da ragazza ho sempre sperimentato le dinamiche che ha bene descritto Aurora: invidie, competizione, pettegolezzi.... No grazie! Concludo dicendo che sarei per ripensare il sacerdozio al giorno d'oggi ammettendo anche il matrimonio per i consacrati che lo desiderano: sarebbero meno soli e più ancorati alla realtà delle persone comuni. É possibile vivere in santità anche da sposati! Clarabella
RispondiEliminaCara Aurora dopo tanto tempo scrivo un
RispondiEliminacommento, ognuno si porta dietro le proprie ferite, si devono fare emergere, non nasconderle,solo accettando le nostre fragilità possiamo lavorare su di noi per
superarle e trovare un po di armonia. Purtroppo penso che la chiesa non sia ancora pronta ad essere così trasparente. un abbraccio. Mirio
Storia forte e intensa...
RispondiEliminaSolo lui sa la verità, sicuramente questa sua scelta di vita da sacerdote, oltre tutto un bellissimo prete tra i giovani parrocchiani, ad un certo punto gli stava stretta perché non più innamorato di Dio ....ma sapeva di tradire e mentire e venire fuori nella realtà sarebbe stato un caso ed un peso enorme ...per questo decide di cancellare tutto con la morte.
Terribile...questo è il mio pensiero.
Laura Scorcelletti
Grazie di questa riflessione, cara Aurora!
RispondiEliminaMi associo a quanto detto soprattutto da Laura che saluto con affetto insieme ad Aurora naturalmente. Guardando la foto di questo giovane e bel sacerdote ho avuto netta la sensazione che si sentisse intrappolato in un mondo che non aveva mai completamente scelto, mi riferisco alla vocazione e non alla realtà quasi sempre ottusa e terra terra delle parrocchie, sulle quali peraltro mi esprimo per sentito dire in quanto me ne sono allontanata disgustata quando ero adolescente Ecco, penso che questo uomo non abbia voluto concedere a se stesso il beneficio del pentimento per una scelta sbagliata, la solitudine e immagino il suo temperamento introverso hanno concorso a rendere ancora più forte la sua fragilità
RispondiEliminaGrazie a te, Aurora, le tue riflessioni mi invitano a fermarmi e riflettere; non avevo sentito la notizia di don Matteo Balzano e mi ha colpito la sua vicenda; il dolore psichico è molto più insidioso di quello fisico ed è tanto più pericoloso in una società malata come la nostra in cui domina il mito della perfezione e della felicità. Teresa Sindona
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