Umiliare per educare?

 


Non sono passate inosservate le recenti dichiarazioni del nuovo ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, rilasciate nel corso del convegno “Italia Direzione Nord” che si è svolto a Milano lo scorso 21 novembre.

Il caso a cui il ministro fa riferimento nel suo intervento risale al 20 ottobre e riguarda uno studente che aggredisce una insegnante, prendendola a pugni in faccia, e al quale viene inflitta come punizione la sospensione dalla scuola per l’intero anno scolastico, sanzione pesantissima se pensiamo che l’istruzione è uno dei fondamentali diritti della persona.

Queste le parole del ministro:

“Se ci si limita a sospendere per un anno, il rischio è che quel ragazzo vada poi a fare fuori dalla scuola altri atti di teppismo, o magari addirittura si dia allo spaccio o magari si dia alla microcriminalità. Quel ragazzo deve essere seguito, quel ragazzo deve imparare che cosa significa la responsabilità, il senso del dovere. Noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione".

Il ministro Giuseppe Valditara al Convegno di Milano

Le sue affermazioni relative al valore educativo dell’umiliazione hanno sollevato una valanga di polemiche e di critiche sul web, costringendo il ministro a scusarsi per le espressioni usate. In realtà, data la gravità delle affermazioni che un ministro dell’istruzione non dovrebbe assolutamente permettersi di pronunciare, le scuse non bastano. 

Dovrebbe piuttosto dimettersi, riconoscendo la sua inadeguatezza per un ruolo che non si concilia affatto con una concezione così retriva della relazione educativa, che oggi nessuno dovrebbe più concepire e attuare nella scuola.

C’è da chiedersi da quale epoca e da quale mondo Valditara sia approdato al governo, e quale sia stato il suo percorso formativo.

Perché l’umiliazione che il ministro con tanta disinvoltura esibisce ed elogia nel suo intervento, come “fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”, richiama metodi “educativi” d’altri tempi, nei quali l’insegnante era legittimato a usare la bacchetta per infliggere punizioni corporali che lasciassero il segno nelle membra e nello spirito dei ragazzi; nei quali al maestro era consentito appendere al collo dei meno studiosi il cartello con l’epiteto “asino”, esponendoli al ludibrio dei compagni e dell’intera scolaresca; nei quali era normale consuetudine mettere gli studenti in castigo dietro la lavagna o con la faccia al muro, umiliandoli ed escludendoli dalla collettività.



E chi ancora oggi ricorre a questi metodi "educativi", com'è successo qualche anno fa in una scuola media di Milano, dove un alunno si è realmente ritrovato con la faccia al muro e la scritta "asino" appesa alle spalle, farebbe bene a cambiare mestiere.

Probabilmente inoltre il ministro non ha mai fatto esperienze personali di umiliazione, o non conosce bene il significato del termine, oppure lo confonde con la parola umiltà, che, sebbene dotata della stessa radice etimologica, ha tutt’altro significato.

Perché, se nella sua vita scolastica gli fosse capitato di essere beffeggiato, ridicolizzato, o peggio costretto come in una caserma a obbedire agli ordini senza discutere, l’esperienza lo avrebbe segnato pesantemente e non lo avrebbe indotto a riproporla con tanta naturalezza come metodo educativo efficace.

Per di più, i lavori socialmente utili non dovrebbero essere affatto concepiti con una valenza afflittiva e umiliante per la persona ma dovrebbero essere percepiti come strumento educativo a tutti gli effetti e come possibilità di risarcimento della società per il male compiuto. 

Servizio alla mensa Caritas, esempio di lavoro educativo, non umiliante

Due sono quindi i nodi da sciogliere sulla questione sollevata dall’intervento di Giuseppe Valditara: da una parte la funzione educativa della scuola, dall’altra le ricadute dell’umiliazione sulla formazione della persona.

L’episodio scolastico in questione di per sé è grave e increscioso. Il ragazzo punito è un giovanissimo adolescente, uno studente del secondo anno dell’Istituto tecnico Andrea Ponti di Gallarate, in provincia di Varese. La dinamica dei fatti, così com’è stata raccontata dalla stampa locale, è preoccupante, ma le informazioni diffuse non rivelano il contesto remoto nel quale sono maturate le tensioni tra i protagonisti della vicenda. 

L’insegnante entra in classe e trova disegnate sulla cattedra delle svastiche e delle frasi antisemite. Interroga la classe, chiedendole spiegazioni circa l’origine dell’accaduto, allo scopo di avviare con essa un dialogo educativo. Si fa avanti con spavalderia l’autore del misfatto e, dopo una discussione con la docente, le sferra un pugno sul volto, lasciandola con un occhio nero.

Da qualunque punto si guardi, la vicenda appare come un fallimento totale della scuola e delle sue finalità educative, e fa riflettere molto sull’impotenza e sull’inadeguatezza delle istituzioni di fronte a un mondo adolescenziale spesso troppo aggressivo, che usa comportamenti trasgressivi e violenti per mascherare un profondo disagio sociale e familiare di cui non sempre è pienamente consapevole, e che è incapace di rispettare qualsiasi regola, proprio perché le percepisce come imposizione.


L’accaduto è certamente la rivelazione di un grave malessere che serpeggia in larghe fasce del mondo giovanile, un malessere mal gestito e che invocherebbe approcci relazionali e strumenti educativi di tutt’altro genere, rispetto alle severe e intransigenti punizioni che spesso hanno solo l’effetto di inasprire e abbrutire di più gli studenti. 

Forse, per affrontare alcuni casi più estremi che si verificano nelle scuole, si dovrebbero studiare ed emulare, nei loro contenuti ispiratori, i metodi educativi applicati nelle comunità terapeutiche di recupero di tanti giovani che imparano qui a vivere, e a scoprire il valore e l’esercizio di quei doveri, invocati dal ministro dell’istruzione, che sono indispensabili alla formazione affettiva e sentimentale della persona e alla costruzione della sua coscienza morale e civile.


All’inizio della mia attività professionale, ho insegnato per anni in un istituto tecnico industriale del nord Italia. Conosco bene quindi le difficoltà che vi si incontrano e con cui come docenti si è costretti a misurarsi, sia per il livello delle motivazioni allo studio non sempre adeguato, ma anche per il clima particolare che si respira in un ambiente in cui, nella maggior parte dei casi, vi è una presenza di studenti prevalentemente maschile.

La scuola non è solo il luogo dell’istruzione e della formazione professionale. È prima di tutto un’agenzia educativa che, insieme alla famiglia e ad altri ambiti della società che non sempre purtroppo collaborano per il raggiungimento delle medesime finalità, dovrebbe accompagnare i ragazzi nel loro percorso di crescita umana, affettiva e relazionale. Ed è soprattutto dalla testimonianza e dall’esempio degli adulti con cui i giovani si misurano quotidianamente, che vengono veicolati quei valori e quegli stili di vita che contribuiscono a costruire la loro persona.


Si auspica sempre che al docente sia assicurata quella formazione psicologica e pedagogica che possa consentirgli un approccio adeguato con gli studenti, per ottenere da essi migliori risultati in ogni campo, non solo in quello dell’apprendimento. 

Ma in molti casi sarebbe sufficiente anche solo una buona dose di maturità umana e di buon senso per gestire in modo migliore la complessità della situazione scolastica che diventa sempre più problematica e impegnativa.

Tante volte, prima dell’insegnamento della propria disciplina, il docente deve infatti fare i conti con il recupero della persona a cui si rivolge, che può essere assolutamente sprovvista dei requisiti minimi per la costruzione di una relazione di ascolto e di fiducia nei confronti dell’insegnante, o priva addirittura di fiducia in se stessa, nella famiglia di appartenenza, nella società intera.


Ritornando poi al discorso sull’umiliazione, la circostanza, seppure impensabile e paradossale, mi offre comunque l’occasione di riflettere sul significato e sulle ripercussioni esistenziali che essa può produrre sulla persona.

Essa è spesso identificata e confusa erroneamente con l’umiltà, fino al punto che i due termini vengono talvolta usati indifferentemente come sinonimi, quando in realtà si riferiscono a situazioni totalmente diverse tra loro e addirittura contrapposte

L’umiliazione, infatti, come accennavo all’inizio, viene in genere subita dalla persona, che viene trattata senza alcun rispetto da chi esercita su di essa una qualsivoglia autorità.

Chi umilia l’altro si pone sempre su un piedistallo, tiene l’altro a distanza, si considera superiore e infallibile, può usare violenza verbale o fisica, intende sopraffare, calpestare, annichilire chi ha di fronte, lo considera una nullità, un incapace, un errore della natura.

Nel campo educativo, poi, l’umiliazione è un fallimento sotto tutti i punti di vista: perché genera persone fragili e insicure, non stimola la loro crescita, incentiva la demotivazione, alimenta la sfiducia, distrugge l’armonia che c’è nella persona e la trasforma nel suo contrario, potenziando la sua aggressività, la sua rabbia e la sua ribellione.


È vero che c’è anche chi si umilia di propria volontà di fronte all’altro, per mancanza di autostima, per una errata concezione dell’amore, per paura e debolezza, per l’incapacità di combattere contro il proprio aguzzino e riconquistare la propria libertà, a volte persino per comodità, come chi chiede l’elemosina invece di adattarsi a qualsiasi lavoro, oppure perché la situazione di sottomissione e di oppressione può offrire paradossalmente anche qualche vantaggio e opportunità.

Ma è sempre comunque una sconfitta per la persona, che vede ogni giorno calpestata la sua dignità e sminuito il valore della sua esistenza.

Sono rari infine i casi in cui spontaneamente e in piena e assoluta libertà ci si umilia di fronte all’altro per difendere e garantire un valore non negoziabile, per una testimonianza radicale del Vangelo, per salvare un bene più grande come il futuro dei propri figli. Ma qui siamo su tutt’altro piano, il piano della santità, davanti a giganti della storia, capaci di perdere tutto pur di salvare qualcuno, disposti a immolare se stessi pur di generare un mondo nuovo.


L’umiltà invece è una delle più grandi virtù, poco conosciuta e ancor meno praticata, ma che ha una ricaduta fondamentale nella formazione della persona e che può essere insegnata anche a scuola, non solo in modo teorico, attraverso lo studio di figure esemplari e la produzione letteraria, ma soprattutto con la propria testimonianza.

L’umiltà è una scelta di vita, perseguita da un soggetto libero e pensante, a differenza dell’umiliazione che rende la persona un oggetto disprezzato e calpestato.

È l’umiltà che plasma l’essere umano, rendendolo pienamente se stesso, consapevole cioè di essere humus, “terra”, e non dio e padrone del mondo e della storia. 

Umiltà non è disprezzo di se stessi o sottovalutazione delle proprie capacità e doti. È piuttosto piena consapevolezza di ciò che si è realmente, è rifiuto dell’autoesaltazione e della vanagloria che rendono ridicolo chi si mette in mostra davanti agli altri gonfiandosi di orgoglio e rivestendosi di superiorità e di infallibilità.


Questa consapevolezza rende la persona capace di relazioni leali e paritarie, miti e dialoganti, inclusive e costruttive.

Non tutti apprezzano questa virtù. Non sempre la sua espressione è contagiosa e trasformatrice della realtà. C’è chi non si lascia scalfire dalla sua testimonianza e preferisce rimanere sul suo piedistallo, umiliando chi gli tende una mano, perché ha il cuore indurito e lo sguardo accecato dal suo io e non è più in grado di guardare lontano.

Tuttavia, chi non recita una parte, ma si sforza ogni giorno di vivere i valori in cui crede, nonostante i limiti e gli inevitabili errori, non si lascia scoraggiare da comportamenti di chiusura o di basso profilo, ma continua a percorrere serenamente la sua strada lasciandosi guidare solo dalla sua coscienza e dalla bellezza luminosa dei suoi ideali.



Commenti

  1. Discorso molto complesso, penso che il merito sia importante a che ora non ci siano più i valori che hanno formato generazioni di grandi uomini e donne in tutti gli ambiti. Ci sta poco rispetto per il lavoro degli insegnanti. Ci sono dei no e delle punizioni che aiutano a crescere. Luana

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  2. Da Salvo Patane '
    La nostra società è intrisa di violenza ( fisica, verbale, morale) a tutti i livelli e in tutti i luoghi del vivere quotidiano.
    Dalla famiglia alla scuola, dalla scuola alla politica, dai rapporti fra le nazioni a quelli fra i singoli.
    Dalla culla alla tomba è un percorso cosparso di violenze di ogni genere.
    Cartoni animati, videogiochi, programmi televisivi, piattaforme digitali, social, sono impregnati di violenza.
    E si cresce in questa atmosfera che deteriora le relazioni.
    Piuttosto che " umiliare" gli autori delle violenze , bisognerebbe recuperarli, farli incamminare in un percorso di crescita culturale, di risarcimento dei danni arrecati attraverso impegni nel volontariato con i tanti esempi edificanti di associazioni, di persone che si spendono per gli altri , per I più svantaggiati , per gli ultimi delle nostre città.
    Occorre una " rifondazione" delle nostre coscienze e delle nostre anime. Ripensare al tipo di umanità che vogliamo si affermi grazie alla nostra mitezza e alla nostra umiltà che dobbiamo conquistare giorno per giorno col nostro impegno instancabile.
    Salvo Patane '

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  3. Messaggio profondo, e noi a scuola abbiamo riscontrato tutto questo.... Purtroppo ci rendevamo conto che con il passare del tempo gli alunni delle classi prime arrivavano sempre più indifferenti ai valori e al rispetto della vita scolastica e il nostro lavoro di Educatori si faceva sempre più difficile, la nostra Missione veniva difficilmente apprezzata. Laura Scorcelletti

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