Palazzo Massimo

 

Da tempo avrei voluto visitarlo, ma il Covid per più di due anni ha scoraggiato la mia creatività turistica al chiuso.

Recentemente, però, con la mia cara amica Christiane, attenta esperta e curiosa amante di arte, ci siamo concesse questo regalo e abbiamo dedicato più di quattro ore della nostra giornata a questa visita interessante e sorprendente.

Sì, perché sono davvero inattese e inimmaginabili le bellezze artistiche che si possono ammirare visitando Palazzo Massimo, e sono così numerose e dense di storia che meriterebbero diverse accurate attenzioni, specie da parte di chi abita a Roma e ha tempo libero da investire in interessi culturali che arricchiscono la persona.

Il Palazzo sorge a pochi passi dalla Stazione Termini di Roma, sul lato opposto di piazza dei Cinquecento, con ingresso su Largo Peretti 2.


Prende nome dal suo antico proprietario, Massimiliano Massimo, dell’omonima antica famiglia principesca romana, dalla quale eredita nel 1873 questa sontuosa proprietà cinquecentesca, appartenente in origine al cardinale Felice Peretti, poi Papa Sisto V. 

Il palazzo che si presenta oggi ai nostri occhi non è però quello originario ma la sua ricostruzione, eseguita nel 1883, che ricalca tuttavia la sua precedente struttura rinascimentale.

Entrato nell’ordine dei Gesuiti, nel 1879 Massimiliano condivide con il suo Istituto questo bene di famiglia che diventerà la sede del Collegio Romano, la scuola dei gesuiti dall’infanzia alle superiori, che sostituirà, fino al 1960, la sede di Mondragone confiscata dallo Stato nel 1870, per poi trasferirsi nell’attuale sede dell’Eur.

Palazzo Massimo è un edificio maestoso e nobile nel suo aspetto, detto anche “alle Terme” per la sua vicinanza alle Terme di Diocleziano, da cui deriva anche il nome del vicino nodo ferroviario.

La Stazione Termini a Piazza Dei Cinquecento

Acquistato dallo Stato Italiano nel 1981, dopo un accurato restauro, nel 1998 diventa sede di uno dei quattro siti del Museo Nazionale Romano, insieme alle Terme di Diocleziano, a Palazzo Altemps e alla Crypta Balbi.

Sono quattro i piani, compreso quello interrato, che accolgono la ricca esposizione museale, tra cui alcuni dei più grandi capolavori dell’antichità romana e greca: sculture, bassorilievi, sarcofagi, bronzi, avori, affreschi, mosaici, gioielli, monete.

Tutti i reperti esposti sono stati rinvenuti a partire dal 1870 a Roma e nei dintorni: dalla Cassia alla Flaminia, da Termini a Portonaccio, dall’Aurelia all’Ardeatina, da piazza Barberini al Tevere.

È così ricca la sua esposizione, che conta migliaia di pezzi di rara bellezza, che è impossibile contenerla nella propria memoria e descriverla nella sua totalità.

Sarebbe un sacrilegio però non ricordare alcune delle sue opere, per il loro grande valore artistico e storico, per la loro imponenza, per il fascino che trasmettono al visitatore, imprimendosi nel suo sguardo e nella sua memoria.

Pur non avendo alcuna specifica competenza in materia, mi propongo qui di elencare solo quelle opere che hanno particolarmente colpito il mio interesse, allo scopo di fare su di esse “mente locale” e imprimerle meglio nella mia memoria, ma anche per stuzzicare l’appetito del lettore e invogliarlo, qualora se ne presenti l’occasione, a esplorare di persona questo insospettabile universo.

Appena varcata la soglia di Palazzo Massimo, si viene accolti da una colossale statua in posizione seduta, identificata, ma con qualche incertezza, nella dea Minerva, la divinità romana della sapienza e delle arti, ma anche della guerra giusta e delle virtù eroiche.


Ritrovata nel 1923 durante gli scavi a piazza dell’Emporio, alle pendici dell’Aventino, l’opera, un autentico capolavoro, è di età augustea.

La statua, in policromia, è unica rispetto a tutte le opere dell’esposizione. Essa infatti è costruita con marmi di diversi colori, secondo una elegante e raffinata tecnica molto cara agli antichi scultori romani, che consisteva nel lavorare separatamente le varie parti del corpo, usando marmi pregiati con varie tonalità cromatiche. 

E infatti gli abiti della statua (chitone e mantello) sono realizzati con alabastro dorato, le parti nude (di cui si conserva solo il piede destro) sono in marmo lunense, tratto dalle cave di Luni vicino Carrara, di un uniforme bianco candido, i capelli sono modellati con il basalto, una roccia nera di origine vulcanica.

Il viso invece è in gesso, ma si tratta di un calco moderno modellato sulla testa di Atena, dea greca corrispondente alla romana Minerva, ritrovata a Villa Carpegna sull’Aurelia, copia romana di un’opera greca. Ma anche la testa della Gorgone (mostro della mitologia greca) incastonata sull’abito di Minerva, è attribuita a un restauro.

Testa di Atena

Il primo impatto che il visitatore ha, andando alla scoperta delle opere esposte, è quello con i “ritratti” che, nella loro varietà, mostrano i diversi modi in cui nel corso della storia antica sono stati concepiti, da quelli idealizzati secondo lo stile dell’arte greca, a quelli più realistici, secondo la nuova visione dell’arte romana, che, come spiegano gli esperti, riconducono alle maschere funerarie di cera che si apponevano sul volto dei defunti.

Molti sono i ritratti di comuni cittadini romani, antenati che le famiglie romane amavano immortalare ed esporre nelle loro dimore, personaggi senza nome e senza storia, che si susseguono in una sequenza incalzante, uomini e donne, in età giovanile o anziana, dai lineamenti sempre diversi e unici, “ricalcati” dai ritratti di personaggi illustri, che colpiscono l’osservatore per l’accuratezza con cui sono riprodotti i loro tratti distintivi: le rughe, gli sguardi, la postura, la capigliatura.



Ma accanto a tanta gente comune troviamo anche i volti di filosofi, copie di originali greci, come Socrate ed Epicuro, che si distinguono per la barba folta, lo sguardo acuto, la fronte corrucciata e pensante; di aristocratici, ritratti con il volto di 3/4, con le labbra semichiuse e lo sguardo ispirato, secondo lo stile greco; e di grandi personaggi della storia, come i diversi imperatori.

In particolare campeggia nel museo la statua dell’imperatore Augusto, in veste di Pontefice Massimo, ritrovata in via Labicana.


Una seconda sezione del museo è dedicata alle sculture dell’arte greca dalla cui bellezza i romani, da vincitori, vengono conquistati e delle cui opere fanno bottino. 

Accanto ad esse, si moltiplicano le copie e le rielaborazioni delle sculture greche più celebri e i capolavori della tradizione romana come la statua del Generale di Tivoli del I secolo a. C.


Muovendosi da una sala all’altra del palazzo, si resta sorpresi nell’ammirare ciò che resta di due grandi affreschi del I secolo a. C. trovati ad Anzio, nella Villa di Nerone, chiamati per questo Fasti Antiates (cioè di Anzio) che raffigurano il calendario romano di Numa Pompilio


e poi i frammenti di un altro importante calendario, di età augustea, chiamato Fasti Praenestini dal luogo in cui era affisso (Preneste, oggi Palestrina) con l’anno di 365 giorni, secondo il nuovo calendario giuliano, entrato in vigore nel 46 a. C. con Giulio Cesare, quasi identico a quello attuale, perfezionato nel XVI secolo da papa Gregorio XIII. 


Un altro sensazionale ritrovamento è esposto a Palazzo Massimo, la statua di origine greca del V secolo a. C. che raffigura una delle figlie di Niobe, personaggio mitologico, ritratta mentre tenta invano di strappare dalla sua schiena una freccia da cui è stata trafitta.

La statua, portata a Roma da Augusto come bottino di guerra, è stata ritrovata nel 1906 nella zona nord-est di Roma, negli Horti Sallustiani (i giardini di Sallustio, storico e senatore della repubblica romana del I secolo a. C.), a 11 metri di profondità, dove probabilmente era stata nascosta nel V secolo per sottrarla alla furia devastatrice dei barbari. 


Due statue, del II secolo d. C., che ritraggono il discobolo, campeggiano in una delle sale. Una di esse, detto Lancellotti, è intatta; all’altra manca la testa, un braccio e i piedi.

Sono ambedue copie romane del famoso discobolo in bronzo, dell’artista greco Mirone del 450 a. C., di cui non si conserva l’originale. Il discobolo Lancellotti è l’unica copia, fedele all’originale, a noi giunta quasi integra e ritrovata nel 1781 sull’Esquilino.


Un’altra opera imponente è il sarcofago di Portonaccio, del II secolo d. C., costruito probabilmente per accogliere le spoglie di un generale romano. L’opera è ritenuta l’esemplare più bello tra le sculture private.


Che dire poi dei resti in bronzo delle due grandi navi con cui l’imperatore Caligola sfoggiava la sua vita sfarzosa sul lago di Nemi dove sorgeva una delle sue lussuose ville, e dove teneva sontuosi e costosi banchetti. Esse, nello stile delle navi da parata della tradizione ellenistica, vengono ritrovate nel lago di Nemi a fine 800, ma vengono distrutte durante la seconda guerra mondiale. Ciò che rimane è una balaustra sostenuta da piccoli pilastri, alcune teste di animali, i due avambracci con le mani tese con funzione apotropaica, per tenere lontano cioè l'influsso del maligno.
 


L’uso del bronzo e dell'avorio nella scultura dà luogo a opere preziose e raffinate, ordinate da famiglie agiate che avevano interesse a esporre nelle loro dimore pezzi unici e di ottima fattura. 

Di esse rimangono solo pochi esemplari di altissimo valore e di grande bellezza, come le due statue bronzee di origine greca, ritrovate nei pressi del Quirinale, che raffigurano il Pugile a riposo e il Principe ellenistico, dalle imponenti dimensioni e dai tratti espressivi intensi.



Un unicum è poi l'espressivo volto d’avorio, preziosissimo reperto storico di inestimabile valore, ritrovato dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, e qui opportunamente illuminato per metterne in risalto la plasticità e dare vita alla materia. 


Il rinvenimento di molte antiche ville romane ha permesso, inoltre, di portare alla luce affreschi e mosaici di rara bellezza davanti ai quali si rimane ammutoliti ed estasiati. 

Tra queste, la Villa del genero di Augusto, ritrovata sotto la Villa della Farnesina a Trastevere alla fine dell’800, di cui è ricostruita la sala da pranzo (detta triclinium o oecus) dalle pareti vivacemente colorate, nelle quali domina il colore rosso ricavato da un minerale, il cinabro, un prodotto raro e prezioso che pochi potevano permettersi.


Ma incantevole è anche la Villa di Livia, moglie dell’imperatore Augusto, ritrovata lungo l’antica via Flaminia, di cui è esposta la ricostruzione del triclinium sulle cui pareti affrescate è raffigurato un giardino con alberi da frutto e uccelli poggiati sui rami o svolazzanti.


Il dipinto è realizzato con la tecnica realistica del trompe-l’oeil, un genere pittorico antichissimo che, pur ignorando ancora le leggi geometrico-matematiche della   prospettiva, si serve di particolari espedienti per trasmette all’osservatore l’illusione di avere davanti a sé un’immagine tridimensionale, quando essa invece è realizzata soltanto su due dimensioni.

I mosaici, rinvenuti in molti casi intatti, nella loro fattura originaria, sono numerosi e spettacolari. Sono esposti sia mosaici a parete che pavimentali.

Mosaico delle stagioni

Mosaico pavimentale

Al piano interrato, infine, si trova una ricca esposizione di gioielli di oreficeria e una collezione di monete, una volta proprietà del re Vittorio Emanuele III, oltre al corpo mummificato di una bambina di circa otto anni col suo corredo funerario, unica mummia di età romana, ritrovata sulla via Cassia, risalente al II secolo d. C., chiamata mummia di Grottarossa dal nome della località in cui è stata rinvenuta.


Uscendo fuori dal Palazzo, lo sguardo si perde alla ricerca di collegamenti con i siti archeologici e altri elementi storici che lo circondano.

Roma infatti è un museo a cielo aperto. Tutto parla di storia e sollecita la curiosità e la ricerca. Quando si cammina lungo le sue strade non ci si dovrebbe mai distrarre, perché ogni pietra, ogni palazzo, ogni strada racconta una storia, un passato, nasconde vicende antiche da indagare e da scoprire.

Veduta delle Terme di Diocleziano con la Basilica Santa Maria degli Angeli

Come il Ristorante alle Terme di Diocleziano, a due passi dall’omonimo sito archeologico, un tempo parte di esso, acquistato da un ristoratore negli anni 60 quando, ahimè, questi scempi erano consentiti, e dove si possono gustare pietanze tipiche immergendosi mentalmente in un’epoca che non c’è più, eppure ancora così presente e palpabile nella nostra quotidianità.



Commenti

  1. Bellissima presentazione di questo museo non a tutti noto. Molte le opere interessanti, ma il sarcofago di portonaccio veramente di livello. Appena ripasso a Roma ci devo fare un salto (dopo una bella carbonara, ovviamente) 😂😂😂

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  2. Che meraviglia!! Hai visto delle cose meravigliose e le hai descritte con linguaggio semplice che chiunque può apprezzare.
    Io l’ho letto tutto d’un fiato. Mi è piaciuto molto! Bravissima. Marilia

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  3. Ciao Aurora Ti devo tanto ringraziare perché hai rinnovato nel mio intimo sentimenti di stupore commisti a smarrimento come quando, alcuni anni fa, ho visitato il Palazzo Massimo.
    Quanta bellezza archeologica da fare venire la Sindrome di Stendhal.!!
    Grazie sempre, carissima Aurora per la Tua bella esposizione. Filippo Grillo.

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  4. Grazie per la bella e particolareggiata esposizione,sei bravissima!

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  5. Ciao Aurora,ho letto attentamente quello che hai descritto e veramente ne sono rimasta entusiasta e con la voglia di visitare il Museo.
    Come dici tu Roma è un museo a cielo aperto, non bastano gli anni della nostra vita per conoscerla tutta. Vorrei ritornare indietro nel tempo per recuperare. Menomale che qualche persona saggia,come te, ci illumina e ci fa conoscere o rivedere le bellezze e i tesori che abbiamo. Un abbraccio e grazie. Tina Gentili

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  6. Grazie Aurora per il bellissimo post su Palazzo Massimo! Traspare la tua passione per l'arte e per la storia. Mi hai fatto venire il desiderio di fare una visita. Un grande abbraccio. Maria Cristina Scorrano

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  7. Che bella lezione di Storia dell'arte, molte volte si scopre che tante cose non si sanno...
    Grazie come sempre Aurora. Laura Scorcelletti

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  8. Bellissima descrizione. Mi hai fatto venire voglia di ritornarci. Stefy

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