Il coraggio di informare


Seguire una guerra in diretta televisiva! Chi l’avrebbe mai detto? Ma oggi è così. Almeno per quelle geograficamente a noi più vicine.

Perché di molte altre, che si consumano in tante parti del mondo, anche da decenni, non ci perviene alcuna notizia.


Pensate per esempio alla guerra in Yemen, un Paese molto povero nella zona più meridionale della penisola Araba. Dal 2015 vi si combatte una guerra civile tra le più sanguinose, con più di 377.000 morti, tra cui 7.500 bambini, il 60% delle vittime a causa della fame e delle malattie. Una guerra sepolta nel silenzio, riconosciuta come la peggiore catastrofe umanitaria del mondo!


La televisione ha portato nelle nostre case le immagini della devastante guerra che si è combattuta negli anni 90 nella ex Jugoslavia, ma anche le testimonianze strazianti della guerra che si sta ancora combattendo in Siria e sulla quale ormai si sono spenti i riflettori.


Lo squallore della città di Aleppo, in Siria, rasa al suolo

Si, perché purtroppo i giornalisti sono maggiormente presenti in quegli scenari di guerra dove le testate giornalistiche e le emittenti televisive investono di più, per condizionamenti e interessi politici ed economici, non certo in base alla gravità delle emergenze umanitarie.


È quanto sta accadendo con la guerra in Ucraina per la quale la quantità e la frequenza delle informazioni che ci raggiungono non hanno eguali.


Giornalisti freelance o inviati da emittenti televisive di tutto il mondo rischiano ogni giorno la vita per cogliere e divulgare informazioni importanti sul conflitto, vivendo in condizioni precarie e altamente pericolose.


Non sempre infatti esporre la scritta Press o TV è una garanzia per la loro sicurezza. Anche questa guerra infatti conta già tra le sue vittime diversi giornalisti.


Il giornalista americano Brent Renaud, ucciso a Irpin, in Ucraina, il 13 marzo 2022

I più avveduti, prima di partire, partecipano ad appositi corsi di formazione dove imparano le regole fondamentali per la sicurezza e la sopravvivenza in situazioni estreme: come muoversi e orientarsi in contesti ad alto rischio e con scenari imprevedibili; a chi chiedere sostegno per comunicare quando non si conosce la lingua del luogo; con quali attrezzature proteggersi da eventuali ordigni; come alimentarsi quando sono rischiosi gli spostamenti per l’approvvigionamento; come fermare un’emorragia, come praticare una rianimazione, come affrontare le crisi psicologiche …


Insomma, è un mondo assolutamente a noi sconosciuto quello che si cela dietro questa difficile professione che merita tutta la nostra considerazione. Senza parlare poi di chi la esercita in contesti in cui neppure il diritto alla libera informazione è riconosciuto e chi con fierezza lo rivendica rischia la propria vita e quella dei suoi cari.


I volti di molti giornalisti, provati, segnati dalla stanchezza per il prolungarsi della guerra, sono divenuti ormai a noi familiari. Li conosciamo per nome, li ammiriamo per il loro coraggio, ci immedesimiamo nei rischi che corrono quotidianamente. 


Il giornalista del TG1, Ilario Piagnerelli


E dietro le loro parole c’è sempre il loro vissuto, ci sono i loro sentimenti, le loro paure, la loro fatica, che possiamo intuire ma di cui non lasciano trapelare nessun dettaglio.


Sono bravi nel loro mestiere. Gli strumenti a loro disposizione sono limitati. Spesso le loro riprese sono realizzate con i lori stessi smartphone. La loro comunicazione non è retorica, è diretta ed essenziale, a differenza di quella dei vari commentatori che affollano in poltrona i talk show delle diverse emittenti televisive, spesso anche senza la dovuta competenza.


Forse per la prima volta il numero delle donne inviate di guerra è significativo. Alcune anche giovanissime. E il taglio delle loro informazioni è particolare, più attento alle persone, alle loro storie dolorose, alle loro condizioni di vita, al loro disagio, più che alle strategie belliche.


Una in particolare vorrei ricordare, Francesca MannocchiUno dei suoi reportage ha avuto una grande risonanza sui media. 


La giornalista Francesca Mannocchi, La7

Realizzato per La7, riporta le testimonianze di chi fugge dalla guerra, degli anziani e dei malati evacuati, smarriti e terrorizzati, portati in salvo sulle spalle dei militari o sulle loro carrozzine; delle madri che piangono stringendo tra le braccia i loro bambini; delle donne che chiedono aiuto e che non sanno capacitarsi del perché di questa folle guerra; dei rifugiati che vivono da decine di giorni nei sotterranei della metropolitana con lo sguardo perso nel vuoto; dei feriti; dei palazzi devastati; delle file interminabili a cui sono costrette le persone per una bottiglia d'acqua e pochi viveri.  


Ma chi è Francesca Mannocchi? Sono rimasta colpita dalla sensibilità che traspare dal suo lavoro e ho voluto conoscerla più da vicino.


Le note biografiche ci consentono di cogliere, oltre agli aspetti della sua vita professionale, anche alcuni tratti della sua vita privata: 40 anni, freelance, esperta in migrazioni e conflitti, ha ricevuto molti premi e riconoscimenti per il suo lavoro. 


L’inchiesta sul traffico di migranti e sulle carceri libiche e il documentario sui figli dei combattenti dell’Isis, sono tra i suoi migliori e più apprezzati servizi giornalistici.


Particolare delle carceri libiche


È anche scrittrice. Ha pubblicato due libri.


Il primo: Io Khaled vendo uomini e sono innocente, un libro coraggioso e urticante che denuncia lo scandalo del traffico dei migranti provenienti dalla Libia.


È la storia di un trafficante di uomini raccontata dal protagonista, una cruda verità che nessuno vuole conoscere e di cui Khaled non vuole sentirsi responsabile.

Perché lui è solo una pedina di un sistema mafioso, dove tutti sono corrotti: politici, guardia costiera, delegazioni umanitarie. E tutti fanno finta di non vedere e di non sapere.


Il secondo, autobiografico e agghiacciante, dal titolo Bianco è il colore del danno, è un grido di dolore: la scoperta di un mostro nascosto nel suo corpo, una guerra che non deve solo raccontare ma che deve vivere sulla sua pelle. 



Da quando le è stata diagnosticata, quattro anni fa, la sclerosi multipla, la sua vita è stata improvvisamente sconvolta. La sua esistenza è ormai sospesa, proiettata verso un futuro incerto e spaventoso.


Abituata agli scenari di guerra, affrontati con coraggio e intraprendenza, non avrebbe mai potuto immaginare che avrebbe dovuto combattere una guerra proprio dentro il suo stesso corpo. Ed è pienamente consapevole che, non essendoci cure appropriate, questa guerra purtroppo non la vincerà.


Stendendo un velo pietoso sui numerosi conflitti che dilaniano la carne e l’esistenza di così larga parte dell’umanità, e che ci angosciano, è a questi uomini e a queste donne che dovremmo esprimere la nostra riconoscenza perché grazie al loro lavoro difficile e rischioso ci è consentito di non chiudere gli occhi di fronte alla realtà, anche se, allo stesso tempo, un invincibile senso di impotenza ci assale.

Commenti

  1. Grazie Aurora per aver ricordato l’impegno, il coraggio e la capacità dei giornalisti che con partecipazione e professionalità ci informano e ci interrogano nel profondo.
    Come dici le giovani giornaliste , tutte brave e coraggiose, hanno un taglio diverso che ci commuove e che , di questa tragedia, ci restituisce il volto umano.

    RispondiElimina
  2. Grazie Aurora per le tue riflessioni. La guerra è quanto di più assurdo l'uomo possa determinare con la sua assoluta libertà di agire: con la stessa libertà potremmo trasformare l'inferno in paradiso! Le donne giornaliste sono bravissime nel dare una lettura più umana di tanto orrore e la ragazza di cui ci hai parlato era stata da me notata per la sua competenza e sensibilità: grazie per il tuo approfondimento sulla sua biografia.

    RispondiElimina
  3. Ci sono luoghi del mondo le cui notizie ci vengono riportate da missionari laici o religiosi che vi si recano per portare aiuti materiali, sanitari ed anche psicologici alle persone. Lì non ci sono inviati speciali, né giornalisti. Non sono richiesti e ancor meno graditi; anzi più si fa silenzio e meglio è. Nel Congo da decenni si consuma una guerra condotta da mercenari che terrorizzano la popolazione di territori senza un apparente motivo, con incursioni, razzie, uccisioni e violenze di ogni genere. Il mondo occidentale, però, il motivo lo conosce bene. I territori sono ricchi di materiali indispensabili per il proprio arricchimento economico. Lo spopolamento ne favorisce la rapina. Gli abitanti di quel territorio convivono con questa realtà pensando che essa sia l'unica esistente mantenendo la sua cultura ricca di colori e ritmi. La notizia che il mondo occidentale fa passare è di commiserazione per la povertà in cui la popolazione è soggetta, e nel contempo arma i mercenari. Questa è la realtà. Lo dico con cognizione di causa. Grazie Aurora per i tuoi preziosi contributi e scusa lo sfogo. Letizia 😜

    RispondiElimina
  4. Grazie,cara Aurora per aver messo in luce la sensibilità della giornalista Mannocchi che non sapevo avesse una subdola malattia che nonostante tutto la tiene lucida nel raccontare i disastri della guerra.Grazie sempre.

    RispondiElimina
  5. Ci sono guerre di serie A e guerre di serie B. Guerre che muovono interessi ed appetiti miliardari di multinazionali : ora delle armi, ora dei vaccini. Ma tutte queste guerre non si curano dei morti e dei feriti che lasciano al suolo. Non si occupano delle distruzioni di intere città e/ o nazioni. Tanto ci sono pronte delle multinazionali della " ricostruzione" che si stanno attrezzando per il dopo. E ci sono reti televisive che fanno spot sulla guerra , parlandone come di competizioni sportive. " Tutta la guerra minuto per minuto" . Come di fatti ineluttabili, quasi fisiologici. Che periodicamente "sfoltiscono" i miliardi di persone che affolliamo il pianeta. Io ho un grande sogno, una "utopia " , stile profeta Isaia: che un giorno tutte le fabbriche di armi , comprese quelle italiane, vengano " riconvertite". Da armi per la morte, passino a produrre trattori, zappe, falci, mietitrebbia per la vita dell' umanità. Prima che sia troppo tardi. Quindi, no ad ogni guerra. Si ad ogni azione di pace. Cominciamo da noi stessi. Combattiamo contro il Caino che si nasconde dentro ognuno di noi, contro l'odio verso gli altri. E allora, forse, inizierà a fiorire una nuova primavera.

    RispondiElimina
  6. Ciao Aurora, il tuo articolo è formidabile e pienamente condivisibile.
    Grazie sempre.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Riciclo solidale

Tre anni fa

Solo canzonette?