Un estraneo sulla strada

 

Van Gogh, Il buon samaritano, 1890, Kröller Müller Museum di Otterlo (Olanda)

Prima di tracciare le linee di azione per costruire una fraternità universale, Papa Francesco si sofferma, nel secondo capitolo dell’enciclica Fratelli tutti, sulla parabola del buon Samaritano (Luca 10,25-37) con l’intento di offrire ai destinatari della sua lettera un modello di comportamento sul quale specchiarsi. 


A scanso di equivoci, ribadisce un concetto già espresso nell’introduzione, dicendo che le sue parole sono rivolte a tutti e non solo a chi ha convinzioni religiose, sebbene la parabola interpelli in modo particolare i credenti. 


Tra i protagonisti della storia raccontata, infatti, il levita e il sacerdote, che passano indifferenti accanto all’uomo ferito, appartengono alla casta religiosa. Chi si ferma e soccorre l’uomo incappato nei briganti è invece un samaritano, disprezzato dai giudei e considerato impuro.


La chiave di lettura  della parabola è esplicitata dal Papa a conclusione del capitolo: il racconto ribalta le categorie mentali e religiose giudaiche. Infatti, alla domanda del dottore della Legge “Chi è il mio prossimo?”, Gesù non risponde dicendo che “prossimo” è chi si trova nel bisogno tra i più vicini, ma che è necessario diventare ognuno prossimo dell’altro, e per di più chiunque esso sia, vicino o lontano, “senza pregiudizi, barriere storiche o culturali, interessi meschini” (83).


Questa è l’idea che guida e illumina tutto il pensiero che si dipana lungo le pagine dell’enciclica, con un crescendo incalzante, a partire da una certezza indiscutibile: “All’amore non importa se il fratello ferito viene da qui o da là” (62), ma si identifica “con l’altro senza badare a dove è nato o da dove viene” (84).



La denuncia più forte  che emerge da queste pagine è quella dell’indifferenza: “Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a ignorare le situazioni” (64). O peggio: “ad andare oltre, senza fermarci” (73). Perché “vedere qualcuno che soffre ci dà fastidio, ci disturba” (65). 

Questi comportamenti sono i “sintomi di una società malata” (65) fondata sull’esclusione e sull’egoismo.


Chi ha responsabilità politica o di governo, a tutti i livelli, chi pensa “alla politica o all’economia per i loro giochi di potere” (77), è chiamato fortemente in causa: “L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi” (69). 

“L’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada” (71).

“Esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte … sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi” (76).



Ma anche chiunque resti spettatore inerte diventa corresponsabile delle tante crudeltà che causa l’indifferenza (77). Parole forti e taglienti ci interpellano, spronandoci ad un impegno di solidarietà condiviso, frutto di “riconciliazione riparatrice”,  rinunciando “alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili” e facendoci “carico dei nostri delitti, della nostra ignavia e delle nostre menzogne” (78).


Il testo ci esorta a fare risorgere la nostra vocazione di cittadini (66) incamminandoci verso il perseguimento del bene comune, facendoci carico del dolore degli altri.

E’ questa l’ora della verità, l’ora in cui far cadere le maschere e i travestimenti, dice il papa (70), chiamando in causa tutti: “Con chi ti identifichi? A quale di loro assomigli?” (64).

 “Ci inchineremo per toccare e curare le ferite degli altri?” (70) o preferiamo essere anche noi “briganti” o “passare a distanza” (ib.).

Perché, chi non si riconosce in questi personaggi, o è ferito, o sta portando qualcuno sulle sue spalle (ib.).




L’opzione di fondo, l’unica via d’uscita di fronte a tanto dolore, a tante ferite, è dunque essere come il buon samaritano (67), “risollevare chi è caduto” (77), alimentare ciò che è buono, mettersi al servizio del bene (ib.).


E il metodo d’azione che suggerisce Papa Francesco è quello di partire dal basso, dal singolo caso, dal concreto e dal locale, per aprirsi gradualmente ad ogni angolo del mondo, andando a cercare gli altri “senza temere il dolore o l’impotenza” (78), senza aspettarci “riconoscimenti o ringraziamenti” (79).


Continua ... 29 aprile, Pensare e generare un mondo aperto

Commenti

  1. Ogni volta che leggo qualche documento di Papa Francesco o ascolto le sue semplici ma efficacissime parole ,penso che siamo molto fortunati ad avere un “ Pastore” così. Le sue parole mi toccano e interpellano sempre perché sono, come scrivi ,rivolte a tutti, proprio tutti, credenti e non credenti.Per noi credenti però il messaggio deve essere anche un richiamo e uno stimolo a impegnarci.
    In questo periodo così difficile per tutti, la pandemia,l’isolamento e la paura per il Covid hanno amplificato atteggiamenti di intolleranza se non di aggressività.Dobbiamo riflettere sulle parole del Papa e cominciare da chi è vicino, a volte anche un un semplice gesto di gentilezza e solidarietà .
    Se non sbaglio madre Teresa diceva : quello che faccio è solo una goccia nell’oceano ,ma se non ci fosse all’oceano mancherebbe.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Riciclo solidale

Tre anni fa

Solo canzonette?