Io do la mia vita

 


Giovanni 10,11-18

Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - 
vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, 
e il lupo le rapisce e le disperde;
perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 
così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: 
anche quelle io devo guidare. 
Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita,
per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. 
Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. 
Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio.


La parabola del buon pastore è lo specchio della vita di Gesù. La sua interpretazione è Gesù stesso che ce la svela, com’è solito fare. In questa icona è racchiusa la sua identità: vi è condensato tutto il mistero della sua passione, morte e resurrezione per la salvezza dell’umanità: “Io sono il buon pastore … e do la vita per le mie pecore” (vv. 14-15).

Tutte le qualità del buon pastore gli appartengono: la conoscenza delle pecore, quella stessa conoscenza che intercorre tra lui e il Padre; la guida verso ricchi pascoli;  la custodia dentro il recinto; il suono di una voce amica e rassicurante; il dono della vita.


Non abbiamo un’idea chiara della vita del pastore che custodisce e veglia sul suo gregge, figli come siamo di una società che ha perso la familiarità con gli odori e i sapori della campagna ma che soprattutto ha perso la capacità di contemplare, di aspettare, di guardare il bello della natura che ancora resiste allo scempio che ne stiamo facendo. 



Mi capita spesso,  affacciandomi dalla mia terrazza o passeggiando lungo i sentieri del quartiere di Roma in cui abito (una vera oasi in cui estraniarsi dal caos della città) di incontrare pastori che conducono al pascolo il loro gregge e mi perdo nel gustare la pace che trasmettono. Un quadro insolito, quasi fuori dal tempo, che suscita stupore e gioia!


Ma è ben poco rispetto a quanto Gesù, in questa parabola, ci svela del lavoro del pastore, che è capace di pagare con la sua stessa vita la cura e la protezione delle sue pecore.


Oggi nella Chiesa si abusa troppo di questa parola. Il clero si attribuisce la qualifica di “pastore”, la vita delle comunità parrocchiali viene definita “pastorale”. Ma spesso in essi non sono visibili i segni di riconoscimento del buon pastore. Constatiamo piuttosto in queste realtà, il più delle volte, una distanza incolmabile dall’immagine di pastore che Gesù delinea e incarna nella sua vita. E quando non si riconoscono i tratti del pastore, viene il dubbio di trovarsi davanti a dei mercenari dal cuore freddo, che svolgono un mestiere o esercitano un ruolo per interessi personali.




In Papa Francesco troviamo un esempio vivente di come si possano seguire le orme di Gesù buon pastore, prendendosi cura dell’altro. Tanti volti nuovi stanno emergendo, anche in posti chiave della Chiesa, che si pongono in ascolto della sua voce. Nonostante siano numerosi oggi nel mondo i motivi di paura e di sgomento, mi sento privilegiata di vivere in quest’epoca e di poter essere testimone della rivoluzione che questo papa sta operando.

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